Il binge eating disorder, o disturbo da alimentazione incontrollata, è un disturbo alimentare caratterizzato da abbuffate ricorrenti e compulsive, che nel lungo periodo possono portare all’obesità. E’ il più frequente tra i disturbi alimentari e interessa il 2-5% della popolazione adulta, con un’incidenza maggiore tra le donne.
A differenza di quanto avviene nella bulimia nervosa, le abbuffate non si verificano nell’arco della stessa giornata ma a giorni alterni, con 3-4 episodi alla settimana, e non prevedono comportamenti di compenso, come il vomito. All’origine del binge eating ci sono di solito un disagio psicologico caratterizzato da depressione e ansia e una relazione problematica con il cibo e con la propria immagine corporea, problematiche comuni a tutti i disturbi del comportamento alimentare (DCA).
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Ora, uno studio italiano ha individuato una possibile nuova arma contro il binge eating, identificando una molecola che potrebbe aiutare a controllarlo.
Binge eating: una molecola per tenere a bada il disturbo da alimentazione incontrollata
La ricerca è stata condotta da un’équipe di studiosi coordinati da Silvana Gaetani del Dipartimento di fisiologia e farmacologia dell’Università La Sapienza e Carlo Cifani della Scuola di scienze del farmaco e dei prodotti della salute dell’Università di Camerino.
Il team ha testato gli effetti dell’oleoiletanolamide, più nota con l’acronimo OEA. Si tratta di una molecola che agisce come segnale di sazietà nel cervello e che gioca un ruolo nella regolazione del metabolismo, in particolare quello dei grassi. Obiettivo dello studio era comprendere se l’azione di questa molecola potesse essere sfruttata per prevenire o tenere a bada il disturbo da alimentazione incontrollata. Test condotti sui ratti hanno mostrato che l’OEA ha la capacità di inibire un comportamento simile al binge eating.
Questa molecola “è in grado di prevenire lo sviluppo di un comportamento alimentare anomalo, di tipo binge, e agisce modulando l’attività di circuiti cerebrali che rispondono alle proprietà piacevoli del cibo e/o all’esposizione a una condizione stressante”. Lo hanno spiegato Adele Romano e Maria Vittoria Micioni Di Bonaventura, prime co-autrici dello studio.
La ricerca è ancora in fase preliminare, ma i risultati, pubblicati sulla rivista Neuropsychopharmacology, fanno sperare che questa molecola possa rappresentare uno strumento efficace per la prevenzione o la cura dei DCA.
Fonte: Il fatto alimentare.
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